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Abitare sul golfo di Napoli tra mare e vulcani

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I Campi Flegrei. La terra del mito

Introduzione

La Campania è una delle aree di vulcanismo attivo più importanti al mondo e vi risiedono, infatti, alcuni fra i vulcani più famosi, quali il Somma/Vesuvio, i Campi Flegrei e l’isola d’Ischia. Le sue ricchezze naturali – originate proprio dalla sua natura vulcanica – hanno attirato, sin dalla preistoria, l’uomo in questa regione, definita da Plinio Campania Felix.

Veduta satellitare del Golfo di Napoli

Forse proprio in ragione di queste risorse un gruppo di Micenei, intorno alla metà del II millennio a.C., si stanziò a Vivara, presso l’isola di Procida, e verso la fine del VIII secolo a.C., i primi coloni Greci, provenienti dall’Eubea, decisero di stabilirsi fra l’isola di Ischia e Cuma.

Un vulcano, infatti, può diventare improvvisamente causa di morte e di distruzione, ma, allo stesso tempo, costituisce per molte generazioni una fonte di inesauribili ricchezze: terreni ricchi di minerali e pertanto insolitamente fertili, varietà di materiali da costruzione (lave, tufi, pozzolane, etc.), corsi fluviali, acque termali e minerali, e – non per ultimo – la bellezza dei paesaggi, che solo nelle aree vulcaniche appaiono tanto articolati e variopinti. In età augustea, il geografo Strabone descrive il paesaggio vulcanico della baia di Napoli: “... Sovrasta questi luoghi il monte Vesuvio, ricoperto di bellissimi campi, tranne che in cima … tutto il golfo è trapunto da città, edifici, piantagioni, cosi uniti fra loro, da assumere l’aspetto di un’unica metropoli.” (Strabone, Geografia, V 4, 8)

Villamena, Eruzione del Monte Nuovo

Tutti questi motivi hanno spinto gli uomini a sfidare i rischi di una pericolosa convivenza con i vulcani, che proprio negli ultimi duemila anni hanno dato luogo a tremende esplosioni. Basti pensare, fra tutte, a quella che, nel 79 d.C., cancellò Pompei, Ercolano e Stabia; tuttavia, già nel 470 a.C., i soldati greco-siracusani di stanza a Ischia dovettero abbandonare l’isola spaventati da un’esplosione vulcanica e, in tempi recentissimi, l’eruzione del Monte Nuovo che, formatosi nello spazio di alcuni giorni, distrusse l’antico villaggio di Tripergole, famoso per le sue terme e per essere stato sede dell’Accademia di Cicerone.

In Campania i pericoli non erano solo le eruzioni, ma anche altri fenomeni vulcanici, cosiddetti secondari, come terremoti e bradisismi, frequenti nei Campi Flegrei.

 I Campi Flegrei. Le terra del mito

Lo stesso nome greco Flegraion pedìon (piana ardente), riferito da Strabone nella Geografia, lascia intendere come gli antichi abbiano conosciuto queste “conflagrazioni”.

Egli scrive: “Tutta la regione fino a Baia e a Cuma è piena di zolfo, di fuoco e di sorgenti calde. Alcuni ritengono che anche per questo Cuma è stata chiamata Flegra e che causano queste eruzioni di fuoco e di acqua le ferite, prodotte dai fulmini, dei Giganti qui caduti”.

Cratere a calice da Ruvo con gigantomachia. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

I Campi Flegrei vengono anche messi in relazione con Flegra (Diod. IV 22), la penisola di Pallene (odierna Cassandra), la più occidentale delle tre penisole della Calcidica nel Mare Egeo, dove antiche tradizioni collocavano la mitica battaglia tra i Giganti e gli dèi. I primi coloni greci della Campania localizzarono la sede della battaglia nella regione vulcanica a ovest di Napoli a cui diedero perciò il nome di Campi Flegrei.

Si tratta di una grande caldera, formatasi a seguito di due grandi eruzioni avvenute 39000 e 15000 anni fa, che mostra oltre venti crateri, originati da eruzioni di tipo esplosivo, come si evince dalla forma degli edifici vulcanici, caratterizzata da ampi crateri con recinti relativamente bassi, costituiti prevalentemente da materiali piroclasitici, ossia non lavici.

Fumarole della Solfatara

Alcuni tra i vulcani più giovani, come gli Astroni e la Solfatara, si sono formati meno di 4000 anni fa; ciò significa che i primi abitanti assistettero alla loro genesi e, come noi, dovettero respirare le esalazioni sulfuree, domandandosi donde provenisse tutto quel materiale pestifero e letale che passava attraverso le fenditure della terra.

Per questo motivo Strabone riferisce per i Campi Flegrei solo miti ctoni (V 4,5, 244-5 C); attraverso un racconto che unisce fonti più antiche come Eforo di Cuma Eolica e tradizioni locali, mette in relazione le acque calde e le esalazioni con i fiumi e luoghi infernali andando a creare una vera e propria geografia mitica flegrea.

Il geografo racconta le più antiche tradizioni relative al Lago d’Averno e spiega che presso Cuma c’è Miseno e tra di essi la palude Acherusia (il Lago Fusaro), la parte sotterranea del fiume Acheronte, il principale dei quattro fiumi dell’Ade. Il fiume era considerato l’ingresso agli inferi, che le anime potevano oltrepassare solo se i loro corpi fossero stati sepolti.

Veduta del Lago d’Averno

Egli prosegue descrivendo i luoghi vicino a Baia: il Lago di Lucrino e subito dopo questo l’Averno. Il Lago di Averno, profondo, di facile accesso, ma chiuso tutto attorno da montagne scoscese e da una fitta foresta, tranne dalla parte dove è l’ingresso. Gli abitanti del luogo dicevano che gli uccelli non potessero volare, ma cadessero nell’acqua per le esalazioni che si levavano da lì, come dai luoghi detti Plutonia. Tale leggenda, legata all’aspetto del lago in epoca preromana spiega anche il nome che significherebbe privo di uccelli (dal greco Aornos, A privativa, e ornos uccello). Così lo descrive Lucrezio (VI, 741 e ss.: “Quando gli uccelli giungono in volo in tal luogo, dimentichi di battere le ali, allentano le vele e, protendendo il debole collo, cadono a precipizio in terra o nell’acqua. Presso Cuma vi è un luogo siffatto, dove, pieni di zolfo ardente, fumano i monti ricchi di fonti termali”.

Come sappiamo, a partire dalla creazione del Portus Iulius, voluto da Ottaviano per fronteggiare la flotta di Sesto Pompeo, il lago fu completamente disboscato per fornire legna alle navi ivi riparate.

Pietro da Eboli, de Balneis Puteolanis, “Gesù spalanca le porte degli inferi”

Tuttavia, la leggenda legata al Lago d’Averno, dove si aprivano le porte degli Inferi e si collocavano i luoghi della nèkyia omerica e dell’oracolo dei morti presso cui sarebbe arrivato Odisseo, continuarono ad essere vivi.

La nèkyia  [traslitt. di νέκυια, der. di νέκυς, forma arcaica di νεκρός «morto»] è un rito con cui si evocavano i morti a scopo divinatorio. Nel libro XI dell’Odissea, Odisseo evoca l’indovino Tiresia prima di discendere nel regno dei morti. Lo stesso fece Enea nel libro VI dell’Eneide che scese nell’Averno scortato della Sibilla Cumana per consultare il padre Anchise.

Strabone infatti riferisce che nel misterioso e cupo lago entravano navigando coloro che volevano fare sacrifici e suppliche agli dei Inferi e c’erano sacerdoti che davano istruzioni in merito.  Secondo Diodoro Siculo (IV 22) l’Averno sarebbe stato sacro a Persefone, divinità ctonia che regna nell’oltretomba, accanto al consorte Ade.

Lycophrone quando narra della discesa di Odisseo agli Inferi (Alexandra, 681-711) descrive l’Averno come “circoscritto da una fune”, ricorda un bosco e la fanciulla di sotterra, Brimò; e più oltre ancora specifica che a lei, chiamata però in questo verso (710) Daeira, Odisseo dedicò uno scudo. Sia Brimò che Daeira sono epiclesi possibili di Persefone e la identificano come divinità legata all’Averno.

Strabone, proseguendo la descrizione della geografia infernale flegrea, racconta di una fontana in riva del mare, dalla quale nessuno osava bere in quanto si riteneva sgorgasse acqua dello Stige e, sempre sul mare, menziona un manteion, un luogo dove si esplicava l’attività oracolare, e delle fonti di acque calde connesse con il Periflegetonte, altro fiume infernale.

Il geografo si sofferma poi sui Cimmeri che abitavano in case sotterranee, chiamate argillai, e vivevano cavando metalli dal sottosuolo e grazie ai proventi ricavati da coloro che venivano a consultare l’oracolo. Non vedevano mai la luce né il sole, ma uscivano dalle profondità della terra solo di notte. In seguito, essi furono distrutti da un re a cui non si era avverato l’oracolo.

Ercole, Otro e Gerione. Kylix attica a figure rosse (510-500 a.C.), firmata da Euphronios . Monaco Staatliche Antikensammlungen.


Anche la saga di Ercole ed in particolare alla sua decima fatica, il ratto della mandria di Gerione, fa parte dello scenario mitico flegreo. L’eroe era di ritorno dalla Spagna, dopo aver sfidato Gerione, uomo mostruoso con tre teste, sei braccia e sei gambe e  Orto, il cane a due teste posto a guardia dei buoi. Battuti entrambi i mostri a suon di clava, dispose gli armenti dal singolare colore viola nella coppa del sole e, attraverso la via costiera da lui stesso costruita (via Erculea), giunse a Bacoli, dove eresse un ricovero per i buoi.  Boàuliale stalle di Eracle, sarebbero dunque all’origine del toponimo Bauli, l’antico nome di Bacoli.

Ancora Strabone, nella sua descrizione di Pozzuoli riferisce che “ tutto il luogo fino a Baia e Cuma è pieno di esalazioni di zolfo, di fuoco e di acque calde”; di seguito egli menziona il bacino vulcanico della Solfatara definendolo “Agorà di Efesto” e lo descrive come “una pianura circondata tutt’intorno da alture infiammate, che hanno molti sbocchi di espirazione a mo’ di camini che mandano un odore piuttosto fetido; la pianura è piena di esalazioni di zolfo.” (Geografia, V 6).

La solfatara di Pozzuoli

I Greci e poi i Romani vivevano in un ambiente geologicamente tumultuoso, convivendo con vulcani, terremoti, terre improvvisamente emerse e imprevedibili catastrofi. Il fascino singolare di questa terra ci ha lasciato pagine ricche di suggestioni.

La violenza della natura ispirò immagini fantastiche e nel suolo scosso da fenomeni vulcanici vennero collocate creature misteriose come la Sibilla, i Cimmeri e i Giganti imprigionati nelle viscere della terra dove li avevano cacciati gli dei dell’Olimpo, caratterizzando questa terra dalla ricchezza straordinaria, come l’accesso ad un mondo sotterraneo e infernale che trasborda riversando le sue acque e i suoi prodotti in superficie e generando le risorse che hanno tanto attratto l’uomo in questi luoghi da farlo convivere con i vulcani.

Ivan Varriale

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Il potere del Vino. Antichi precetti e consigli per i bevitori

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Il potere del vino. Antichi precetti e consigli per i bevitori

Nessuno ha mai bevuto qualcosa più piacevole del vino: 
il vino fu inventato per guarire la tristezza,
il vino è un dolce vivaio d'allegria,
è il cemento che rinsalda ogni convito.
Varrone (fr. 111 Bücheler)

Il vino

Il vino, che Alceo definisce “specchio dell’uomo”, non è un prodotto come il pane né un nutrimento, bensì una sostanza straordinaria, inebriante, dotata di poteri meravigliosi, in quanto l’ebbrezza che provoca consente all’uomo di superare i propri limiti e compiere imprese straordinarie.

Consapevoli del potere del vino, gli antichi, attraverso il rito del simposio, lo utilizzavano come mezzo di coesione sociale. Al consumo del vino si associavano la voce del cantastorie e il canto dei poeti lirici, cosicché alla soddisfazione del corpo si aggiungesse quella dello spirito.

Il binomio cultura-vino è ancora oggi ricorrente e la letteratura, sia antica che moderna, ha messo in evidenza le qualità della bevanda inebriante sotto due aspetti fondamentali: da una parte come esperienza individuale legata all’ebbrezza e dall’altra come pilastro della convivialità.

Ripercorrere la storia del vino significa ripercorrere le tappe fondamentali della nostra storia.

Presso gli antichi la viticoltura era un segno della presenza umana e il vino era un segno di civiltà, in quanto nato dal sapere dell’uomo che manipola il frutto della vite.

La vite e il vino nascono insieme alla civiltà occidentale e le fonti antiche sono piene di norme e precetti per la coltivazione della vite e per la produzione del vino, se ne decantano i pregi, si tramandano le occasioni in cui si consumava e a quali divinità essi dedicavano le bevute.

Il potere del vino

Sin da Omero si conoscevano le virtù e il potere del vino. Ulisse, ricevuto come dono regale il vino da Marone, lo usa come arma per rendere inoffensivo l’immane ciclope  Polifemo.

I lirici arcaici, che cantavano i propri inni durante gli allegri simposi, non mancarono di lodare le virtù del vino, che rendeva gli uomini sinceri e consolidava i rapporti sociali.

Psykter attico a figure rosse, attribuito al Pittore di Kleophrades, 510-500 a.C.

Teocrito (Idilli, XXIX 1-4), che riprende Alceo, afferma: “Nel vino, è verità, ragazzo mio, si dice, e noi bisogna che ubriacandoci siamo sinceri: ti dirò le cose nascoste nel profondo di me stesso”. Anche l’uomo più controllato non sfugge a questa regola. Teognide dichiara: “Nel fuoco conoscono gli esperti oro e argento; nell’uomo è il vino che rivela la mente, anche nell’uomo saggio, se oltre misura gli è piaciuto bere…” (219, 499 ss.)

Il vino per gli antichi è, dunque, verità, da cui il detto in vino veritas che – pur comparendo, in questa formula, per la prima volta in Zenobio (4. 5), all’epoca dell’imperatore Adriano – è una costante della letteratura antica.

Anche in Orazio nell’ode all’“Anfora veneranda” (Carmina, III 21), infatti, si propone il medesimo concetto: “Tu fai dolce tortura all’indole più rigida e scostante, tu riveli dei saggi gli affanni e i propositi segreti, grazie a Lieo, dio dell’allegria”.

Il vino era considerato una sorta di siero della verità, tanto che Orazio scrive “I re — si dice — impongono infinite coppe — la tortura del vino — a colui che vogliono vedere se è degno di amicizia.” (Orazio, Ars poetica, 434 ss.)

La bevanda, oltre a tale potere, rendeva l’uomo più forte e coraggioso come si legge nella già citata ode all’“Anfora veneranda”(vv. 17-19): “Tu ridai la speranza a chi è in angoscia, al povero dai forza e sicurezza; grazie a te più non teme l’ira di regali teste coronate né armi di soldati”.

Alle eccezionali virtù cantate dagli antichi facevano da controparte i pericoli di una bevanda tanto potente. Già nella Genesi si trovano le due facce del vino e, naturalmente, quella negativa è attribuita all’intervento di Satana:

Quando Noach venne a piantare una vigna), dinanzi a lui apparve il Satan e domandò: ‘Cosa pianti?’ ‘Una vigna’ ‘Di che natura è?’ ‘I suoi frutti sono dolci, tanto freschi che secchi, e da essi si fa il vino che rallegra il cuore’. ‘Vieni, ora, e mettiamoci in società per questa vigna’. ‘Benissimo’ – disse Noach. Che fece il Satan? Portò una pecora e la uccise sotto la vigna; portò in seguito un leone, un porco, una scimmia, li uccise e lasciò scorrere il loro sangue nella vigna, inzuppandone il terreno. Accennò in tal modo che l’uomo, avanti di bere vino, è semplice come una pecora, e quieto come un agnello di fronte ai tosatori. Quando ha bevuto moderatamente, è forte come un leone e dichiara di non avere eguale al mondo. Quando ha bevuto più del dovere, diventa come un porco che si rotola nelle lordure. Quando è ubriaco diviene come una scimmia, che danza, dice oscenità dinanzi a tutti e non sa che cosa fa.” (Genesi, IX 20).

I precetti degli antichi

I Greci consci dei rischi che comportava un uso smodato del vino, usavano berlo diluito con acqua, a differenza di Dioniso a cui era consentito sorbirlo puro.

La pratica di non diluire il vino, condannata da Platone, era tipica di alcune popolazioni definite “barbari” dai Greci, come i Persiani e i Traci:

Guai all’ubriachezza, come vi si abbandonano Lidi, Persiani, Cartaginesi, Celti, Iberi, Traci e popolazioni simili, allo stesso modo in cui voi, Spartani, ve ne astenete del tutto. Sciti e Traci bevono esclusivamente vino puro, le donne, al pari di tutti gli uomini, se lo spargono fin sulle vesti e hanno la convinzione che questa sia una consuetudine nobile e da ricchi.” (Platone, Leggi, I 637 d-e)

Anacreonte di Teo da Monte Calvo, II secolo d.C.. Ny Carlsberg Glyptotek.

Questa abitudine era tanto nota nell’antichità che i Greci con “bere alla scita” indicavano il bere vino puro. Non è un caso che i Centauri, che nell’immaginario mitico dei Greci rappresentavano i barbari, facessero uso di bere vino senza acqua anche in maniera esagerata. Celebre è la contesa scoppiata durante la festa di nozze di Piritoo con Ippodamia, quando un Centauro ubriaco aveva cercato di fare violenza alla sposa.

Numerosi autori greci si dilungano nel deprecare l’uso smodato del vino; Aristotele fu addirittura autore di un trattato sull’ubriachezza, dove elargisce una serie di consigli per bere tanto, senza cadere ubriachi: “Se il vino fatto bollire per un po’, quando lo si beve ubriaca di meno. Infatti il suo potere, con l’ebollizione, si indebolisce.

Platone, nel sesto libro delle Leggi (VI 775b-c), scrive: “Bere fino a ubriacarsi non conviene in nessuna altra circostanza eccetto che durante le feste in onore del dio che ci ha dato il vino, e non è senza rischio; è specialmente inopportuno quando si affronta il matrimonio, nel quale la sposa e lo sposo dovrebbero essere pienamente padroni di sé, dal momento che si accingono a un cambiamento di vita non di poco conto; e poi anche in considerazione della prole, affinché sia generata sempre da genitori quanto più possibile sobri.”

Il poeta latino Catullo (Carmina, I 27), invece, dedica un carme al vino schietto:

Ragazzo, se versi un vino vecchio
riempine i calici del più amaro,
come vuole Postumia, la nostra regina
ubriaca più di un acino ubriaco.
E l’acqua se ne vada dove le pare
a rovinare il vino, lontano,
fra gli astemi: questo è vino puro
Dioniso e Icario. Napoli, Museo Archeologico Nazionale

Antichi beoni

Nonostante i tanti precetti che invitavano a bere bene per bere meglio, numerosi sono i personaggi famosi per la loro smodatezza nel bere; Alessandro Magno si ubriacava tanto da girare su un carro trainato da asini cantando a squarciagola; Dario, re di Persia, sulla sua tomba fece scrivere: “Fui capace di bere molto vino e di reggerlo bene”; Dionigi il giovane, tiranno di Sicilia, rimase ubriaco per novanta giorni consecutivi e Diotimo, stratega ateniese, aveva il soprannome di “imbuto”, in quanto pare avesse l’abitudine di infilarsi in bocca un imbuto per tracannare più vino.

Satiro ebbro dalla Villa dei Papiri ad Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale

Tra i Romani, come ricorda Plinio, vi furono molti bevitori esagerati: “A Torquato si riconobbe il merito non comune, poiché anche l’arte del bere ha le sue regole, di non aver mai balbettato, di non essersi liberato vomitando o tramite un’altra parte del corpo, mentre beveva, di aver impeccabilmente svolto il servizio di ronda mattutina, di essere riuscito, con una sola sorsata, ad ingerire la massima quantità di liquido e di essere riuscito a bercene sopra, a piccole sorsate, un’altra grandissima quantità e che molto lealmente mai avesse preso respiro, né sputato bevendo e che non avesse mai lasciato in fondo alla coppa una quantità di vino sufficiente a produrre rumore sul pavimento, in ossequio rigoroso alle regole contro i bari nelle gare di bevuta… Tergilla rimprovera a Cicerone, figlio di Marco, la sua abitudine di bere, d’un fiato, due congi di vino alla volta e il fatto di avere scagliato, da ubriaco, una coppa contro Marco Agrippa. Questi sono dunque i risultati dell’ubriachezza, ma Cicerone senza dubbio volle strappare questo titolo d’onore a Marco Antonio, uccisore di suo padre. Egli infatti, fino ad allora, aveva sempre gelosamente custodito la palma del suo primato, dopo avere per di più pubblicato un libro sulla propria ubriachezza, nel quale, osando difendersi, ha messo in netta evidenza, secondo me, la gravità dei mali che la sua ubriachezza aveva apportato al mondo intero. Poco tempo prima della battaglia di Azio sputò fuori questo libro, dal quale si può facilmente dedurre che, ebbro ormai del sangue dei concittadini, ne era tanto di più assetato. Infatti, questa è la conseguenza necessaria di un simile vizio, che cioè l’abitudine a bere ne accresce la voglia ed è nota la battuta di un ambasciatore scita secondo cui i Parti quanto più hanno bevuto, tanto più hanno sete.” Plinio, Naturalis Historia, XIV 146-148)

A Roma, pare che, durante il banchetto, prima della seconda portata si distribuissero corone di foglie e fiori con cui gli ospiti si coronavano il capo. Si dice che in origine le foglie di certe piante come l’edera, il mirto e l’alloro e alcuni fiori, come le viole e le rose, avessero il potere di disperdere i vapori e quindi di alleviare gli effetti nocivi del vino. È per questo che l’edera era stata sempre sacra a Bacco e per questo la testa del dio era sempre incoronata con foglie d’edera. Chi si mostrava ad una festa con una corona posta sulla testa di traverso era considerato ubriaco e quindi divenne presto usanza mettere una corona in cattivo stato in testa a chi aveva ecceduto nel bere.

Vino e seduzione

Il vino, secondo gli antichi, giocava un ruolo primario anche nelle faccende d’amore; la bevanda disponeva il cuore al nuovo amore: “Spesso le ragazze rubano il cuore ai giovani, e Venere, col vino, è fuoco aggiunto al fuoco” (Ovidio, Ars amatoria, I 243-4) o liberava la mente dalle pene di un amante ferito: “Mesci vino e col vino placa i nuovi affanni,  che il sonno vinca e prema i miei occhi d’innamorato affranto,  né alcuno mi desti mentre il mio capo è stordito  dal copioso Bacco e l’amore infelice riposa” (Tibullo, Elegie, 1, 2, 1-4)

Ovidio nella sua Ars amatoria dedica grande spazio al vino nell’arte della conquista. L’autore, che compila un vero e proprio manuale del conquistatore, considera il banchetto un luogo ideale per avvicinare e conquistare una donna: “Mille occasioni ti daranno poi mense e banchetti, ove potrai cercare oltre al solito vino i tuoi capricci.  Sovente Amore qui, rosso di fiamma, poté umiliare tra le molli braccia le dure corna a Bacco ebbro di vino; ma quando il vino poi l’ali ad Amore, sempre assetato, ha intriso, allora il dio soggiace greve e non sa più volare: scrolla invano da sé l’umide penne, ed è rischioso l’esserne spruzzati. Appresta il vino i cuori e alla passione li fa più pronti: sfumano i pensieri; nel molto vino ogni penar si stempra. Risorge allora il riso, ed anche il povero alza la fronte: dalla fronte fugge ogni ruga, ogni affanno, ogni dolore. Sincerità spalanca a tutti i cuori, oggi tra noi si rara; ogni menzogna scuote da noi il dio. Sovente allora ai giovani rapi la donna il cuore, e fu nei vini come fiamma Amore dentro la fiamma.” (Ovidio, Ars amatoria, I 229-244)

Il poeta, tuttavia, raccomanda di fare attenzione, poiché, se è vero che il banchetto è un luogo ideale per la conquista, l’oscurità della notte e l’abbondante vino possono trarre in inganno nella scelta della donna da sedurre: “Ma non ti fidare troppo di un lume incerto di lucerna: la notte e il vino nuocciono al giudizio della vera bellezza. In piena luce guardò le dee Paride, allorquando,  disse a Venere: “ Tu, Venere, vinci e l’una e l’altra!”(Ovidio, Ars amatoria, I 245-248)

Ovidio dispensa una serie di suggerimenti per un consono uso del vino, per chi si voglia cimentare nell’arte di amare. Ne prescrive un uso misurato in modo da essere sempre pronto e controllato e arriva suggerire l’ubriachezza simulata, che permetterà al conquistatore di mascherare avances troppo spinte dietro l’ubriachezza:

Giusta misura al bere io ti darò, questa: che la tua mente ed il tuo piede sian sempre pronti. E soprattutto schiva le tante liti cui dà forza il vino, né usare mani facili alla rissa. Eurizione morì bevendo stolto il troppo vino offertogli: più adatti sono la mensa e il vino al dolce scherzo. Canta, se hai voce; se ti senti, danza; con tutto ciò che può piacere, piaci.  Ebbrezza vera può ben darti danno, giovarti finta: fa’ che la tua lingua balbetti incerta e subdola ad un tempo, onde ciò che tu fai, ciò che tu dici di troppo audace e spinto, sia creduto frutto del troppo vino. E alzando il calice:

« Salute », dille, « e salve a chi il tuo letto con te divide! ». Ma in cuor tuo invoca sul marito presente ogni malanno.” (Ovidio, Ars amatoria, I 587- 599)

Esagerare nel bere durante un banchetto poteva procurare danni ben peggiori che fallire una conquista: “È allora che gli occhi vogliosi calcolano il prezzo di una matrona e quelli appesantiti del marito lo espongono al tradimento della moglie; è allora che si rivelano i segreti dell’animo. Alcuni fanno testamento in presenza di testimoni, altri pronunziano parole letali e non riescono a frenare frasi che poi dovranno rimangiarsi – quanta gente è finita in questo modo! – e già un proverbio ha attribuito al vino la verità.” (Plinio, Naturalis Historia, XIV 141)

Nonostante tutti gli ammonimenti e i consigli per bere bene, la passione che i Romani avevano per il bere rimase sempre sfrenata: “E a ben considerare, non c’è campo che costi all’uomo maggiore impegno – come se la natura non ci avesse fornito l’acqua, la più salutare delle bevande, di cui si servono tutti gli altri esseri viventi; ma noi obblighiamo perfino certe bestie da soma a bere vino – e per così grande fatica, attenzione e spesa si distingue questo prodotto destinato a far perdere all’uomo la ragione rendendolo furioso, causa di mille delitti, così allettante che tanta gente non conosce alcun altro valore nella vita! … Che anzi, per poterne bere di più, ne diminuiamo la forza filtrandolo e si escogitano altri mezzi per stimolare la sete e per bere si ingeriscono addirittura veleni: alcuni prendono prima la cicuta, affinché siano costretti a bere per evitare la morte, altri poi polvere di pomice ed altri prodotti che mi vergogno di far conoscere citandoli. (Plinio, Naturalis Historia, XIV 137)

Non posso, quindi, che invitare il lettore a bere e soprattutto a bere con moderazione per provar piacere fino all’ultimo sorso perché come dice Seneca: “È l’ultimo bicchiere che più di tutti piace ai bevitori, quello che li affoga, che rende l’ebbrezza completa” (Seneca, Epistole a Lucilio, I 12, 4).

Nunc est bibendum…

Ivan Varriale

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Estratto da: R.Ciardiello, I Varriale, Nunc est bibendum. Cultura del vino e coltura della vite, Valtrend editore, Napoli 2010